Dov’è il vero coraggio oggi – Chi siamo. Mentre impazza il nostalgismo armato di Scurati, Della Loggia & C., vale la pena ricordare la parte migliore dell’identità occidentale: la disobbedienza.

“Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno di essi rimarrebbe nelle file”. Citando questa lucida constatazione di Federico II di Prussia, Tolstoj riflette sulla ‘cieca’ obbedienza dei soldati che non trovano il coraggio disertare anche se “nel fondo della loro anima sentono che fanno un atto cattivo obbedendo alle autorità che li strappano al lavoro, alla famiglia e li mandano alla strage inutile”. La disobbedienza dei militari, la rivolta di chi dovrebbe fare la guerra e si rifiuta di farlo: la più taciuta delle virtù, il meno celebrato tra gli eroismi. Non è così in Germania, dove una ventina di monumenti ricordano i disertori: trentamila dei quali furono fucilati durante la Seconda guerra mondiale. Quello di Colonia, inaugurato nel 2009, ha un’iscrizione che lo definisce “omaggio ai soldati che si sono rifiutati di sparare ai soldati, che si sono rifiutati di sparare al popolo, che si sono rifiutati di torturare il popolo, che si sono rifiutati di dare informazioni contro il popolo, che si sono rifiutati di brutalizzare il popolo, che si sono rifiutati di discriminare il popolo, che si sono rifiutati di ridicolizzare il popolo, che hanno dimostrato coraggio civile, mentre la maggioranza taceva e si accodava”.
Ma è forse quello collocato a Potsdam, opera dell’artista turco Mehmet Aksoy, il più eloquente sul piano figurativo: in una grande massa di marmo di Carrara è evidente un vuoto, che ha la sagoma di un corpo umano. È il vuoto lasciato dal corpo del disertore che, disobbedendo e fuggendo, si è letteralmente sottratto alla massa. Quasi ognuno di questi monumenti ha avuto una storia difficile, di contestazioni e opposizioni: perché la memoria di chi ha disobbedito punta inevitabilmente il dito contro la maggioranza obbediente, evocando parole simili a quelle famose di Brecht: “Ecco gli elmi dei vinti, abbandonati | in piedi, di traverso e capovolti.| E il giorno amaro in cui voi siete stati | vinti non è quando ve li hanno tolti, | ma fu quel primo giorno in cui ve li | siete infilati senza altri commenti,| quando vi siete messi sull’attenti | e avete cominciato a dire sì”. Parole preziose, di cui avremmo bisogno come un antidoto nell’Italia di oggi. Pochi giorni fa, Antonio Scurati ha scritto un elogio degli “uomini risoluti a uccidere e a morire”, rimpiangendo i “guerrieri feroci, formidabili, orgogliosi e vittoriosi”, auspicando che noi europei riscopriamo “le ragioni per prepararci, se necessario”, a fare la guerra. Prima di Scurati, a esaltare la guerra erano stati alcuni cantori dell’identità occidentale, da Federico Fubini (“Noi occidentali stiamo perdendo la potenza delle armi perché non sopportiamo più di subire perdite in una guerra convenzionale. All’epoca dei nostri nonni un caduto era motivo d’orgoglio in famiglia, oggi è considerato inaccettabile”) a Ernesto Galli della Loggia (“Il rapporto con la guerra significa infatti il rapporto con il nostro presente in generale, con ciò che esso è, e insieme indica ciò per cui pensiamo che valga la pena di morire… La riprovazione che ci piace muovere a Israele per il suo uso spregiudicato della potenza, mi chiedo, non è forse solo un modo per cercare di nascondere a noi stessi la nostra impotenza? Per cercare di nascondere la rassegnazione da parte nostra, da parte dell’Occidente europeo, a non avere più alcun ruolo nelle faccende del mondo, al fatto di esserci virtualmente ritirati dalla storia?”).
Chi ha composto la pagina di Repubblica dove è apparso l’articolo di Scurati, ha scelto di illustrarla con una stampa cinquecentesca che mostra un gruppo di lanzichenecchi, i terribili mercenari tedeschi che sparsero per l’Italia morte e terrore, arrivando nel 1527 a compiere il terrificante Sacco di Roma: fra le pagine più abiette della storia europea. Così le verità rimosse tornano nel discorso: Scurati esalta la “guerra eroica, l’esperienza plenaria, l’accadimento fatidico, il momento della verità”, ma nella stessa tradizione occidentale, da Omero in poi, è altrettanto forte la voce di chi condanna la guerra, di chi ne rifiuta l’oscenità, l’orrore, l’inutilità. Nell’Inno a Marte di età ellenistica un guerriero chiede al dio della guerra il coraggio di non farla, la guerra: “Irradia di lassù la tua amica luce sopra le nostre vite, e la tua forza guerriera: così che io possa scacciare dalla mia testa l’odiosa viltà, e frenare quello slancio fallace del mio animo, e trattenere quella stridula voce nel mio cuore che mi provoca a gettarmi nella guerra agghiacciante. Tu, o beato, donami il coraggio: lasciami indugiare al sicuro nelle leggi della pace, e sfuggire così allo scontro con i nemici, al destino di una morte violenta”. Il coraggio di disertare, di dire (con Hannah Arendt) che “nessuno ha il diritto di obbedire”, di dire (con don Milani) che “l’obbedienza non è più una virtù”. La parte migliore della nostra famosa identità occidentale: la sola che, forse, può permetterci di avere un futuro.
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