La grande guerra mediorientale sulla pelle del popolo siriano – di Alberto Negri

Damasco circondata

Sulla via di Damasco Israele, che ha frantumato Hamas e Hezbollah, con l’atomizzazione del mondo arabo vede un traguardo all’orizzonte: il suo affermarsi come unica superpotenza regionale.

Per i jihadisti anti-Assad, lanciati all’attacco dal loro padrino Erdogan, l’assedio di Damasco è sempre più vicino e si specula già sulla spartizione della Siria tra le milizie e le potenze coinvolte, Turchia, Israele (che occupa il Golan dal 1967), Iran, Russia (tre basi militari), Stati Uniti.
Come se la Siria – dove l’esercito si sta dissolvendo come quello iracheno davanti all’Isis – fosse solo un campo di battaglia e non anche un popolo.
La tragedia dei siriani non si ferma: 300mila profughi in una settimana di avanzata dei jihadisti e di raid aerei russi. La Siria è un Paese di profughi: su 24 milioni 7,2 sono rifugiati interni, 5,5 in altri Paesi (la maggior parte in Turchia, Libano, Giordania e Germania). Il 90% dei siriani vive sotto il livello di povertà, il 47% dei rifugiati è sotto i 18 anni e un terzo non va a scuola. Tutte le cifre sono dell’Unhcr che teme altre ondate di profughi sia nei Paesi vicini che verso l’Europa.

La Siria è una partita geopolitica fondamentale ma si compie sulla pelle di un popolo, come si è già verificato con i destini di altri della regione, dai palestinesi ai curdi agli iracheni. In realtà la Siria come nazione unita e indipendente deve scomparire nella disgregazione del Medio Oriente esplosa con la fine dell’Iraq di Saddam Hussein dovuta all’invasione americana nel 2003, proseguita con al Qaeda e l’Isis, la colonizzazione israeliana della Palestina e ora con la fulminea ascesa dei jihadisti di Hay’at Tahrir al Sham (Hts), teleguidati con droni e satelliti dalla Turchia di Erdogan.

Israele, che ha frantumato Hamas e più che dimezzato Hezbollah, vede un traguardo all’orizzonte: l’atomizzazione del Medio Oriente arabo e il suo affermarsi come unica superpotenza regionale. I colpi assestati a Hezbollah e pasdaran iraniani in Siria e Libano hanno sguarnito le deboli difese di Assad che ora vede un appoggio sempre meno convinto della Russia di Putin, pronto a trattare per le sue basi militari nel Mediterraneo sia con la Turchia che con Israele e gli Stati uniti, come del resto il Cremlino ha fatto sempre in questi anni con Erdogan e Netanyahu. E ovviamente la partita russa è assai condizionata alla guerra in Ucraina.

Al disegno egemonico israeliano manca solo l’Iran, l’ossessione di Netanyahu da vent’anni, che con Trump alla presidenza dal 20 gennaio dovrà affrontare la già sperimentata strategia della «massima pressione». La repubblica islamica, del resto, promette di sostenere Assad ma anch’essa come la Russia non è troppo convincente: in questi anni si è dissanguata spendendo 20 miliardi di dollari per tenere in piedi il regime alauita, la minoranza di Bashar Assad – il cui padre Hafez nel 1979 fu l’unico leader arabo a sostenere la rivoluzione islamica sciita di Khomeini – salita al potere nel 1971.

Teheran, che sta negoziando con Ankara e Mosca, è in grado di tenere le posizioni della Mezzaluna sciita, dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen? L’operazione è complicata e gli iraniani hanno già evacuato dalla Siria in Libano i capi dei pasdaran. L’ammiraglio Tony Radakin, capo delle forze armate britanniche, in un discorso al Royal United Services Institute di Londra, ha rivelato questa settimana che Israele ha usato i suoi F-35 per effettuare gli attacchi del 26 ottobre contro siti militari in tutto l’Iran. «Israele – ha detto – ha usato più di cento aerei e nessuno di questi si è dovuto avvicinare a meno di cento miglia dal bersaglio nella prima ondata, distruggendo quasi l’intero sistema di difesa aerea iraniano e la capacità dell’Iran di produrre missili balistici per almeno un anno».

Gli inglesi se ne intendono perché sono stati i loro aerei da ricognizione dal 7 ottobre a individuare con gli Usa oltre il 70% dei bersagli da colpire a Gaza e in Libano. Questa è una “grande guerra” del Medio Oriente dove per la prima volta si usano in battaglia caccia come gli F-35 con sistemi di bombardamento e intelligence di ultimissima generazione, non disponibili da nessun altro. Un avvertimento non solo agli stati della regione ma anche a Russia e Cina. «Tutto questo non avviene certo per caso, come non è casuale il coinvolgimento di Israele negli eventi in Siria», afferma Alastair Crooke, ex diplomatico britannico e agente del servizio di intelligence all’estero MI6.

La Turchia, come Israele, vede anch’essa vicino il traguardo di abbattere il regime di Assad. Erdogan è stato in passato il principale sostenitore della rivolta armata contro il leader siriano, al punto di usare anche il capo di Hamas a Damasco Khaled Meshal, che arrivò a scatenare una guerra civile tra palestinesi a Yarmouk, nella capitale siriana. Passati 13 anni da quella ribellione, esplosa dopo le proteste antigovernative del 2011 e degenerate in un sanguinoso conflitto, l’escalation può materializzare tre degli obiettivi di Erdogan: ampliare la presenza militare al Nord, spezzando l’unità della Siria, spingere al ritiro le forze curde siriane, in particolare quelle legate al Pkk, alleate degli Usa contro l’Isis, rimpatriare dalla Turchia in Siria oltre tre milioni di profughi siriani.

Cosa aspetta i siriani in caso di caduta del regime? Al Jolani, ex qaidista capo di Hts, con una taglia Usa sulla testa, in un’intervista alla Cnn (con una giornalista velata) ha dichiarato che «il popolo non deve avere paura di un governo islamico» e che le truppe straniere dovranno ritirarsi, senza per altro mai nominare Israele. I siriani – mentre persino l’Isis ha rialzato la testa – sono divisi tra i filo-islamisti che vedono la possibile vittoria della rivoluzione e i laici e le minoranze che temono di finire in un emirato islamico come a Idlib. Il finale, come avrebbe detto il poeta siriano Adonis, è che di questo popolo travolto dal caos rischieremo di raccogliere le ceneri.

Fonte: https://ilmanifesto.it/

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