Scritto da Luigi Mezzacappa, marzo 2017
È più forte di me: non sono mai riuscito a vedere nei Paesi più ricchi e potenti la personificazione della ragione e, in quelli più poveri, della colpa. Dai ricorsi della Storia, semmai, mi sembra di leggere il contrario. Non ho mai pensato che aver successo significhi automaticamente aver ragione, così come essere povero non significa essere un fallito. Se devo scegliere, preferisco gli ultimi, specialmente quando i primi sono arroganti. Che la povertà sia colpa dei poveri deve essere dimostrato; che i ricchi vorrebbero farlo credere, no.
Ciò detto per essere chiari. Parlando di Cuba, anche se a tratti potrò sembrare imparziale ed equilibrato (!), si sappia che sono di parte. Dalla parte di Cuba.
Sono di parte ma non sono fanatico, né integralista o vetero-qualcosa: quella stessa Cuba che per il mondo intero si trova in permanente stallo tra mito e disinganno – sapientemente combinati dall’ideologia post-ideologica – è per me tutt’altro che un mito, meno che mai un inganno. Fatta di sangue e carne viva che soffre di una guerra (tuttora in atto e che pochi ammettono) e dei suoi stessi connaturati problemi, Cuba è per me una pietra angolare, l’emblema della lotta quotidiana del “mondo di sotto”, di una resistenza combattuta sui contenuti e lontana anni luce dalle nostre miserie giocate sulla forma e di nessuna sostanza.
Lo dico subito e lo grido in faccia soprattutto a coloro che, quando lo ripeto, mi guardano con aria di commiserazione alzando un angolo della bocca: il dibattito sociale, politico, economico e culturale, a Cuba, è più aperto e meno ipocrita che da noi. Lì si parla, si grida e si impreca contro ogni cosa, ma scuole e ospedali restano in piedi, mentre le nostre democratiche manfrine seminano macerie.
Cuba è la dimostrazione pulsante che esiste un altro modo di guardare alle cose. Cuba ha preparazione e cultura per parlare e non parlare a vanvera. Come ognuno di noi che attraversa la parabola della propria vita con un cliché che famiglia e società gli hanno appiccicato addosso e che spesso non è neanche in relazione con l’evidenza dei fatti, anche a Cuba non è bastato cercare di scrollarsi di dosso la narrazione che le è stata “appioppata”. La feroce dittatura, la società militarizzata e abbrutita, lo stato di polizia, l’intimidazione, non corrispondono neanche lontanamente alla realtà effettiva di Cuba e, ammesso che sia esistito un momento storico in cui tali cliché potevano essere evocati, è invece sicuro che non è mai esistito un dibattito sufficientemente autentico per poterne parlare seriamente: nessuno sarebbe mai stato disposto a comprenderne le ragioni, semplicemente perché capire le ragioni di Cuba avrebbe necessariamente rivelato le responsabilità dell’Occidente.
Lo confesso, mi fanno un po’ ridere quelli che danno di Cuba una definizione e poi cercano di farcela stare dentro, dal turista al “nostro corrispondente a Cuba” che scrive da Miami, per arrivare ai “me l’ha detto un amico” e ai grandi “analisti”. Cuba è tutto e poi anche il contrario, esattamente come tutti i Paesi del mondo. Per non apparire ridicolo, nessun fine pensatore nostrano oserebbe affermare: “Ho capito l’Italia!”. Chissà perché invece Cuba può essere chiusa in un cliché? La società cubana è complessa, viva e in movimento, sicuramente più viva e in movimento delle nostre società, sempre più simili a mosche cieche impazzite che per cercare nuove vie sbattono continuamente contro il vetro. Noi cerchiamo vie facili e veloci, con l’effetto paradossale e grottesco che nella democratica riffa dei diritti vince sempre chi ce li ha già: se hai più soldi, puoi permetterti più “numeri”. A Cuba vie facili e veloci non ce ne sono e, per giunta, si è scelta la via più lenta, complessa e faticosa: quella della solidarietà interna e internazionale.
Seppure a prima vista possano sembrare distanti, il turista che torna a casa e ti racconta di aver incontrato tanti cubani che si lamentano del governo e il grande inviato che a Cuba cerca sistematicamente la voce della “dissidenza”, hanno in comune le stessa ingenua ignoranza: delle dinamiche sociali in generale e della realtà cubana in particolare. E la stessa “pelosa” assenza di autonomia critica.
Come se in Italia non esistessero italiani che si lamentano del governo. Come se uno straniero in visita in Italia, incocciando in un leghista qualsiasi, pretendesse di aver capito lo “spirito di un popolo”. Come se si continuasse a far finta di non sapere che certa dissidenza è costruita e organizzata.
A Cuba ognuno può trovare ciò che cerca, ovvero la conferma dei propri preconcetti, ma la stessa cosa può capitare in qualsiasi Paese del mondo. Occorre fare un piccolo sforzo per scoprirlo, ma i cubani non li convinci con quattro leggine, un job act e una quota rosa. Quelli sono in rivoluzione permanente da 150 anni e hanno smesso la guerriglia solo da 60. Non può essere un caso.
Nessun cubano – dico nessuno – nega e nasconde i problemi, anche drammatici, dell’economia del Paese. I cubani hanno consapevolezza, conoscenza e capacità di leggere e interpretare la loro propria Storia. Per questo mi fanno ridere quelli che vorrebbero insegnare loro la strada per la felicità. Per questo, ai miei occhi, Cuba appare un gigante se confrontata con noi, che invece non siamo mai stati capaci di dare un nome ai nostri nemici, come stragi, attentati e mafie – per citare solo le sofferenze più strazianti – stanno lì a dimostrarci, seppur sepolte sotto una montagna di menzogne e ipocrisia. Per questo spesso mi chiedo di cosa parlino i nostri fini pensatori dalle colonne dei nostri giornali e dai microfoni dei telegiornali quando parlano di politica. Che Paese è quello che non sa dare una spiegazione al proprio dolore? Di cosa parla, quando parla di progetti e futuro, chi non sa da quale passato proviene?
Cuba queste cose le sa, ed è per questo che sul suo futuro – a dispetto di tutto e delle bestialità che sul suo conto si sprecano – nutro un grande ottimismo.
Cuba è un Paese “normale”. E’ un concetto semplice, eppure difficilissimo da spiegare ai più. Come dicevo, a Cuba si parla, si discute, si impreca. C’è gente politicizzata e c’è gente che se ne frega di qualsiasi cosa. Tutte le confessioni religiose si riuniscono e si esprimono. I gay vivono alla luce del sole e a Santa Clara c’è perfino un gay pride. La sicurezza è a livelli impensabili per le nostre società. Non esistono prigionieri di coscienza e perfino la Chiesa e Amnesty International lo hanno finalmente ammesso. Si dirà: effetto del confronto con l’Occidente a cui Cuba è stata “costretta”. Non è così, il problema è un altro. Il problema è il senso che si dà alle parole. Non sarebbe neanche tanto difficile capirlo, basterebbe fermarsi a riflettere sul significato che hanno assunto oggi nelle nostre società parole come “democrazia” o “missione di pace”. Sarei stato curioso di vedere come avrebbe reagito se, invece di Cuba, fosse stato un qualsiasi Paese occidentale a subire continuamente, per 60 anni, attacchi di tutti i tipi: dagli sbarchi di truppe d’assalto agli attentati contro aerei della compagnia di bandiera, dai missili e dalle bombe contro gli alberghi alla mistificazione mediatica, dalla diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive clandestine alle contaminazioni dal cielo di pascoli e coltivazioni e ai tentativi di assassinare il Capo di Stato. Oppure se un qualsiasi Paese del “nostro” mondo fosse stato provocato con l’arresto di cinque suoi cittadini infiltrati nei centri operativi del terrorismo, ovvero nelle mafie residenti all’estero finanziate da “organizzazioni umanitarie” conniventi con le intelligence straniere. Nel 1998, cinque cubani che cercavano di intercettare e sventare le trame terroristiche progettate in Florida, furono arrestati dall’FBI pur senza aver mai carpito segreti di Stato o messo in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, dopo che Fidel Castro, con l’intercessione di Gabriel Garcia Marquez presso Clinton, suo amico, invitò il Dipartimento di Stato americano alla cooperazione per il disarmo delle bande criminali che i Cinque avevano messo a nudo. In una delle infinite azioni di quelle “organizzazioni umanitarie” che avevano causato più di 2000 mutilati e 3000 morti sul suolo cubano, morì anche un ragazzo italiano, Fabio Di Celmo. Il mandante di quell’azione è noto, è reo confesso e circola liberamente nelle strade di Miami. Il Governo italiano non ne ha mai chiesto l’estradizione. La memoria di Fabio Di Celmo in Italia non solo si è persa: non è mai stata cercata. A Cuba è onorata ancora oggi, a vent’anni di distanza. Qualcuno, da noi, sa qualcosa di questa storia, tra le tante?
Ecco, appunto: è una questione di significato attribuito alle parole e di come si raccontano o non si raccontano le storie.
Ciò che a Cuba non è “normale”, invece, è il senso di identità, di orgoglio, di appartenenza di popolo, di indipendenza, di desiderio di autodeterminazione. Tutti sentimenti che farebbero piacere anche a noi, ma che noi non siamo più in grado di esprimere.
I cubani sono liberi. Fanno il cavolo che gli pare. Se vogliono, camminano nudi e sulle mani.
Ho avuto l’occasione di incontrare tre cubani con i quali ho potuto condurre una mia personale piccola “indagine”, una cosa di cui sentivo il bisogno per mettere in ordine ciò che in questi anni ho letto, studiato e scoperto. Sono partito da ciò che mi è toccato sentire dai nostri telegiornali nei giorni del funerale di Fidel Castro. Ho detto ai tre: “Non credo di dirvi cose che già non sapete”. “E’ probabile”, mi hanno risposto, “ma siamo curiosi!”. Così ho raccontato: “L’inviato di uno dei nostri maggiori telegiornali, mostrando il corteo funebre, ha detto che la gente SEMBRAVA triste e che, data la moltitudine, evidentemente stava seguendo l’esortazione del Partito a partecipare”. Ho visto dipingersi sui loro volti la stessa identica reazione: per un milionesimo di secondo i loro occhi si sono stretti come ad annunciare un’esplosione di rabbia, ma immediatamente dopo hanno cambiato piega. Con un sorriso autenticamente rilassato, uno di loro mi ha risposto: “Dovresti spiegare ai tuoi amici che non si dovrebbe mai parlare di cose che non si sanno e non si capiscono. E’ probabile che conoscano poco e male la vita di Fidel, ma è certo che non sanno nulla dei Cubani: se a un Cubano dici di fare una cosa, puoi star sicuro che farà il contrario!”. E l’altro: “Il Partito? Beh, il corteo sarebbe stato ben scarno, allora. Lo sai che gli iscritti al Partito non arrivano al 10% della popolazione, vero?”. E poi, rivolto verso il suo amico: “Quell’inviato avrà probabilmente visto le immagini dei cubani di Miami che esultavano, ed evidentemente non ha saputo darsi altra migliore spiegazione di quella che i media internazionali offrono da sempre…”.
Anche l’altro amico sorride. Sembra impaziente di dire qualcosa, e infatti nel primo attimo di silenzio si lancia nel racconto di quando, adolescente, si trovò a intrattenere Fidel Castro in visita al campo dei “Pioneros” proprio il giorno in cui era “caporale di giornata”. Preoccupatissimo ed eccitatissimo, rispose con inaspettata scioltezza alle domande del Comandante sul funzionamento del campo e sulle attività. A un certo punto, gli accompagnatori fecero presente a Castro, con i gesti e con gli sguardi, che era necessario accelerare la visita. Fidel chiese al ragazzo di fermarsi un attimo e si voltò verso i suoi uomini: “Calma, signori: sto parlando con il ragazzo. Quando avremo finito andremo”.
Grazie alla disponibilità alla chiacchiera dei tre (di facile riscontro a Cuba!), ho proseguito la mia “esplorazione”: “Cosa vi sembra sia cambiato dal giorno dell’annuncio di Obama e Raul?”. Mi rispondono di getto: “Nei fatti o a parole?”. Dico: “Nei fatti e a parole”. Dice uno: “Nei fatti, nulla. Il blocco è come prima e forse peggio. In giro si vedono più nordamericani, ma non sono ancora turisti ‘a tutti gli effetti’: sono quelli che rientrano nelle 12 categorie che Obama ha ‘liberalizzato’, tra cui giornalisti, ricercatori, educatori, associazioni professionali e umanitarie, oltre naturalmente ai cubani di nascita che adesso possono rientrare più spesso”. Dico: “Ah, è quella che Obama ha definito la ‘diplomazia culturale’, quella che dovrebbe trasmettere i valori occidentali alla povera e sprovveduta Cuba?”. Dice: “Sì, quella. Ma gli americani sono comunque tanti, il che fa pensare che dentro quelle categorie ci mettano di tutto. Però il turismo puro e semplice è ancora proibito perché è proibito dalla legge americana sul blocco, e il blocco permane esattamente come prima. Tra l’altro, lo sai che a quelle categorie la legge americana vieta la frequentazione di luoghi pubblici e spiagge?”. Dico: “Caspita, viva la liberta!”. Dice: “Già, viva la libertà”. Dico: “E nelle chiacchiere cos’è cambiato?”. Dice l’altro: “Nelle chiacchiere sembra cambiato tutto: tutto a posto, tutti amici. Così adesso dobbiamo fronteggiare questa nuova ondata di disinformazione che torna a sollevare polvere, come sempre, e sai bene che in questo gioco noi abbiamo la peggio, perché noi siamo ‘la feroce dittatura’…”. Dico: “Nei tre giorni che abbiamo trascorso in un cayo abbiamo sentito che il personale del resort si rivolgeva agli ospiti in inglese. Perché? Dove finirà l’orgoglio isolano?”. Dice: “Sì, è un peccato, ma evidentemente così si vuole mostrare tutta la nostra disponibilità e apertura. Dobbiamo mostrarci aperti perché altrimenti passiamo per integralisti e antiquati, ma noi sappiamo quello che facciamo. Non sono questi i cambiamenti che ci preoccupano. Non ti preoccupare, sulle cose importanti teniamo la barra dritta. Le cose importanti sono la sanità, l’istruzione e l’informazione, e lì non permetteremo mai nessuna ingerenza di nessun tipo. Possiamo aprire qualsiasi cosa alla partecipazione mista, ma non le cose importanti”. Dice l’altro ancora: “Non si può evitare il cambiamento, anzi: lo vogliamo! Avremo il diritto anche noi a un maggiore benessere, no? O pensi che per essere socialisti e conservare la verginità dobbiamo restare con le pezze al culo? Vedrai, troveremo la nostra strada. Siete tutti spaventati perché nessun socialismo è arrivato fin qui, e nessuno conosce la ricetta giusta. Del resto, qualcuno conosce la ricetta giusta del capitalismo? Noi stiamo sperimentando, e lo faremo lentamente ma inesorabilmente, anche sbagliando, tornando indietro e ricominciando, come abbiamo fatto spesso in passato, ma non ci fermeremo. Ricordati cosa dice Raul: vogliamo un socialismo prospero e sostenibile!”. Dico: “Quello che dici mi consola, ma come la mettiamo con il ‘potere corruttivo’ del denaro? I turisti e poi gli stranieri delle aziende miste vi stanno portando un sacco di valuta pregiata, non pensi che, se la domanda aumenterà, si creerà una nuova borghesia che prima o poi pretenderà ‘diritti del terzo tipo’? Voglio dire: come da noi, cioè gente che per il fatto di veicolare ricchezza pretende ‘trattamenti di riguardo'”. Dice l’altro: “L’abbiamo detto, non si può evitare il cambiamento. In questo momento entrano soldi? Benissimo, ne abbiamo bisogno più del pane! O pensi che dovremmo fermarci e poi ripartire solo quando avremo trovato un modello fiscale e legale ideale per sostenere l’equilibrio e la redistribuzione? Purtroppo non si può fare così. Le infrastrutture sono scarsissime, in questo Paese ci sono talmente tante cose da fare che dobbiamo farle tutte insieme: fare le cose e progettare i modelli per gestirle. Ed è ciò che stiamo facendo. E comunque non partiamo da zero: cinque anni fa abbiamo tracciato le linee guida di un piano di sviluppo quinquennale e decennale con l’aiuto della popolazione attraverso un confronto di proporzioni mai viste, con le assemblee di quartiere, le associazioni di categoria e i sindacati. La popolazione ha partecipato in modo impressionante. Abbiamo fissato i principi e sappiamo tutti dove vogliamo andare, non solo i quadri”. Dice il primo: “Restiamo un’economia debole e lenta, ma non abbiamo fretta”. Dice di nuovo il terzo: “Entra tanta valuta ma non basta ancora per dare un volto nuovo al Paese, non abbiamo sufficiente liquidità, anche a causa del blocco, e gli stanziamenti dobbiamo farli in valuta pregiata, dollari o euro, un anno per l’altro. Non possiamo improvvisare nulla, ma forse è perfino meglio così”. Dice ancora il primo: “Nella nostra economia, un cubano ha bisogno dell’equivalente di 120-140 dollari al mese per vivere bene. Non siamo molto lontani”. Dico: “Il ritorno alla moneta unica sarà un passaggio complesso, ma dovrebbe aiutare a migliorare ed equilibrare la redistribuzione della ricchezza, giusto?”. Dice: “Sì, ci stiamo lavorando”. Di nuovo il terzo: “Siamo in America Latina, abbiamo altri standard e abbiamo sofferto mille vessazioni, non abbiamo paura di soffrire ancora. Faremo le nostre scelte una dopo l’altra senza correre, non possiamo sciupare il patrimonio di questi 60 anni di Rivoluzione”.
Ne approfitto per lanciare una questione che mi sta molto a cuore: “Sui nostri mezzi di informazione, anche i più benevoli, mi capita spesso di leggere del disimpegno dei giovani, quelli della generazione successiva alla Rivoluzione, quelli cresciuti nel Periodo Especial nel segno della scarsità e della privazione. Dicono che questi giovani hanno voglia di libertà, benessere e capitalismo, portano vestiti firmati e consumano i pochi pesos a disposizione chattando su Internet. Tutti si chiedono cosa sarà di Cuba quando questi ragazzi raggiungeranno i posti chiave della società”. Leggo nuovamente sui loro volti quell’impossibile espressione mista di rabbia e genuino divertimento. Intuendo la loro risposta mi affretto ad aggiungere: “I nostri giornali sono molto preoccupati…”.
Uno dei tre mi guarda e mi dice: “Tu mi sembri una persona seria e affidabile. E’ così?”. Tra lo spiazzato e il sorpreso gli rispondo: “Mah, non lo so, può darsi, non sono io a poterlo dire…”. Lui mi incalza: “Sei sempre stato così? Voglio dire: a 20 anni eri già così serio e affidabile? Non hai mai fatto sciocchezze, non hai mai desiderato una vita comoda e facile?”. Sorrido per dissimulare il colpo. E lui: “Sappiamo che ci sono dei rischi, ma non possiamo e non vogliamo fermare il cambiamento, come sempre. I nostri ragazzi desiderano una vita facile anche più dei vostri perché hanno un passato difficile. Ma loro sono esattamente il loro passato, e quando sarà il momento, quando saranno maturati, saranno quello che sono. E poi, se non dovesse essere così… qual è il problema? Secondo voi, siccome siamo a Cuba dovremmo essere tutti inquadrati e irreggimentati? Il colmo è che se lo fossimo ci accusereste di esserlo!”. Poi l’altro: “La scala dei valori qui è diversa. E’ difficile da spiegare. Anche la nostra scala di valori ha dei problemi, ma è difficile spiegarli a chi già non conosce e capisce questi valori”. E incalza: “Così come nelle società consumistiche l’individualismo e l’ambizione producono distorsioni letali, anche da noi il paternalismo e la sicurezza sociale hanno prodotto distorsioni. Molto meno letali, ma costituiscono comunque il freno a uno sviluppo ideale. Resta il fatto che abbiamo visioni molto diverse, e nessuno dovrebbe pretendere di imporre all’altro una soluzione basata sulla propria visione”.
Per dimostrarmi il suo teorema, per spiegarmi quali siano i rischi del paternalismo, mi fa l’esempio di un ragazzone del suo ‘barrio’, sposato e con una figlia, che è stato lasciato dalla moglie a causa dei suoi accessi d’ira e delle sue frequenti “leggerezze”. Cacciato di casa, ha girovagato nel barrio per mesi e si è buttato nell’alcol. Il Consiglio del Poder Popular di quel barrio ha stanziato una somma per consentirgli di sistemare una casetta e rifondare le basi della sua esistenza. Mi spiega che l’attenzione della comunità al ragazzo non si è esaurita nel momento in cui gli è stato concesso il piccolo finanziamento, ma lo ha accompagnato per evitare ricadute e che abusasse dell’aiuto. Mi scappa un commento: “Ah, il barrio ha stanziato un finanziamento a fondo perduto?”. Lui mi guarda strabuzzando gli occhi e mi dice: “Fondo perduto? Che fondo perduto, scusa? Il ragazzo sta meglio e il barrio non subisce più gli effetti del suo disagio. Stanno meglio tutti, è stato un investimento”. Cerco di abbozzare un timido sorriso, che in quel momento mi pare essere il modo meno stupido per dire: “Scusa, ho capito”.
L’altro riprende il discorso da cui ci eravamo un po’ allontanati: “In tutte le società c’è sempre chi se ne frega di qualsiasi cosa. Non puoi pretendere da tutti lo stesso impegno e la stessa applicazione. Ma dimmi, sono i giovani ‘disimpegnati’ che governano o governeranno il Paese? In quale Paese le scelte politiche sono guidate e condizionate da questo tipo di persone? Se come in tutti i Paesi c’è chi se ne frega di tutto, a Cuba c’è di buono che chi occupa i posti chiave è preparato e consapevole”.
La chiacchiera trova una breve pausa. Sorseggiamo quello che resta della birra, ci guardiamo intorno, respiriamo l’aria fresca della sera habanera. Il vento che oggi ha schiantato un miliardo di onde sui parapetti del Malecon finalmente si è placato. Dico: “Ho visto che nei giorni scorsi all’Avana c’è stato il Vertice dell’Associazione degli Stati del Caribe”. Dicono: “Sì, queste sono cose molto importanti per i Paesi dell’America Latina”. Dico: “In QUESTO mondo Cuba è al centro, vero?”. Dicono: “Sì, adesso sì”. Dico: “Beh, da qualche tempo, no?”. Dicono: “Sì, è vero: da quasi sessant’anni”. Dico: “Mi ha colpito molto la tranquillità nella quale si è svolto: da noi per un evento del genere ci sarebbe stato un presidio da guerra civile, corpi speciali, transenne e zone rosse, arancioni, verdi e chissà quante altre sfumature, mentre qui c’erano due poliziotti su ogni angolo dell’albergo dove si teneva il Vertice che controllavano solo che passanti e macchine non si fermassero lungo i quattro lati dell’isolato. Ma ho comunque visto una macchina che si è fermata per far scendere due vecchietti, e un poliziotto ha fischiato, ha fatto segno all’automobilista di andare, e questo faceva segno al poliziotto di aspettare. Ha fatto scendere i due vecchietti e poi, con tutta calma, è risalito in macchina e ha ripreso la sua strada”. Dicono: “Sì, siamo tranquilli qui. Anche qui ci sono quartieri un po’ più difficili, ma non senti mai una sirena. Quando senti una sirena è perché è successo qualcosa di grave”.
La birra è finita e anche la serata, ma c’è ancora qualcosa sospesa nell’aria che i tre amici mi devono dire. Se ne fa interprete quello che era rimasto un po’ più in silenzio. Mi guarda con un sorriso sornione. Sembra esitare, poi alla fine mi chiede: “Fidel è morto. Lo sai chi sarà il prossimo lìder?”. Dico: “Se non sbaglio si parla dell’attuale Ministro degli Esteri, è così?”. Dice: “No”. Dico: “Beh, allora non lo so”. Mi guarda e sorride, poi: “Davvero non lo sai?”. Dico: “No, non lo so, e anche se mi è capitato di leggerlo sui vostri siti, sicuramente non me lo ricordo”. Tace. Di nuovo mi guarda e sorride: “Non riesci a immaginarlo?”. Dico: “No, te l’ho detto, pensavo fosse il Ministro degli Esteri…”. Dice: “Te lo dico io chi sarà il lìder dopo Fidel”. E poi tace ancora, e di nuovo sorride. Intuisco che vuole tenermi sulle spine, che vuole creare le premesse per l’effetto sorpresa. Alla fine me lo dice: “Dopo Fidel il nuovo lìder sarà Fidel”. Solo a quel punto riesco a spiegare la mia intuizione, a capire perché diceva “dopo Fidel” e non “dopo Raul”. Non era il lìder politico quello a cui alludeva, dovevo capirlo. Per la seconda volta cerco di abbozzare quel timido sorriso, però sento che questa volta non basta. Così allungo una mano e gli sfioro una spalla e, sperando che non mi senta, sussurro: “Non avevo capito la domanda…”.
Purtroppo non ho strumenti per azzardare analisi, ma non credo siano le analisi le cose più interessanti da fare a Cuba. Ciò che quell’isola può regalarci è un’altra cosa: è il segno di una lotta contro la banalizzazione del confronto sociale, contro la riduzione della politica a meschina contrapposizione di interessi di parte. Non è difficile né insolito raccogliere testimonianze così. A Cuba è così. Non è necessario essere giornalisti o ricercatori: intuizioni di un mondo “altro” ti piovono addosso senza cercarle. Ho parlato con gente comune, con dirigenti di aziende (ovviamente statali!), con giornalisti, studiosi e rappresentanti del Poder Popular della capitale. Ho respirato l’aria ed era fresca, pulita e leggera. Aria di cultura e di curiosità; di musica, arte e confronto aperto; di solidarietà, empatia e incontro. La gente si aiuta e ti aiuta, sembra incapace di odiare. Perfino sulla strada: gli automobilisti ti strombazzano con i loro clacson assordanti e poi ti salutano. Ho visto ospedali, scuole, asili e ospizi in tutti i borghi. Il lavoro minorile non esiste, la denutrizione infantile è stata cancellata, unico paese dell’intero continente americano. Non c’è bisogno di discorsi e analisi, né di qualcuno che voglia convincerti. Le cose le vedi. Ho visitato città, parchi naturali e ascoltato musica che sono Patrimoni dell’Umanità, e ho intuito che quella immensa ricchezza di natura, cultura e Storia sono stati affidati nelle migliori mani possibili.
Se vogliamo dire che lo stile di vita è quello un po’ indolente, trasandato e marpione, un po’ sagace e furbacchione tipico dei sud del mondo, diciamolo pure, ma per favore, non facciamone una cosa politica, ché non fa onore alla nostra intelligenza.
Il paradiso non è di questa terra e Cuba è fatta di uomini, come potrebbe sfuggire a questa legge? Ma è uno straordinario laboratorio che il mondo, invece di angariare, dovrebbe preservare e coccolare. Perché il giorno in cui Cuba dovesse “perdersi”, il mondo tutto perderebbe forse l’ultima occasione per specchiarvi le sue ipocrisie.
Fonte:
http://www.civg.it/index.php?option=com_content&view=featured&Itemid=101