C’è una dannata fretta nell’aprire la guerra – commerciale, per ora – contro tutto il mondo. E probabilmente pesano anche gli squarci aperti sulla “narrazione MAGA” dai quotidiani incidenti aerei che vanno mostrando al mondo quanto la “grandezza statunitense” non sia proprio nel suo momento migliore.
Anticipando di un mese la partenza delle ostilità rispetto a quanto scritto nei suoi “ordini esecutivi”, comincia già oggi la prima guerra commerciale della seconda presidenza di Donald Trump.
I beni provenienti dalla Cina, ha detto Leavitt, saranno sottoposti a dazi del 10%, mentre quelli dal Messico e del Canada al 25. Dazi del 25% faranno certamente salire il prezzo che i consumatori Usa pagheranno per qualsiasi merce importata da quei paesi, ma soprattutto faranno scattare analoghe ritorsioni (riducendo così i margini dell’esportazione per il non molti prodotti Usa che viaggiano in direzione opposta).
Il Canada ha già preparato e annunciato una serie di contromisure forti, ha detto il primo ministro canadese Justin Trudeau: “Saremo pronti a rispondere, una risposta mirata, energica ma ragionevole e immediata. Non è quello che vogliamo, ma se si muoverà, agiremo anche noi. Non cederemo finché le tariffe non saranno rimosse e, naturalmente, tutto è sul tavolo “.
Nonostante sia ormai sulla porta d’uscita come primo ministro, Trudeau è sembrato molto determinato: “Non voglio indorare la pillola” per i canadesi che potrebbero affrontare momenti e duri contraccolpi nei prossimi giorni.
Le economie dei due paesi sono da tempo immemorabili fortemente interconnesse, facendolo sembrare quasi un solo paese (e infatti Trump ha cominciato a proporlo come “51° stato Usa”): ben il 75% di tutte le sue esportazioni di beni e servizi vanno negli Stati Uniti. Inevitabile, dunque, un forte colpo di freno immediato a causa dei dazi.
Le controsanzioni diventano oltretutto occasione per iniziative anche estemporanee di autopromozione per politici in cerca di visibilità, complicando così la gestione di una partita certamente complessa. Doug Ford, premier dell’Ontario, ha promesso di ritirare gli alcolici americani dagli scaffali dei negozi della sua provincia. Che però è la più popolosa del paese (ci vive circa un terzo dei canadesi), con città come Toronto e la capitale Ottawa. In pratica il Canada è il secondo mercato mondiale per gli alcolici americani (dopo l’intera Unione Europea).
Anche Chrystia Freeland, ex ministro delle Finanze e probabile successore di Trudeau, ha chiesto ritorsioni: “Essere intelligenti significa reagire dove fa male. Il nostro contrattacco deve essere dollaro per dollaro e deve essere mirato in modo preciso e doloroso: i coltivatori di arance della Florida, i produttori di latte del Wisconsin, i fabbricanti di lavastoviglie del Michigan e molto altro ancora “.
Anche Claudia Sheinbaum, la presidente progressista del Messico succeduta ad «Amlo», ha chiarito che sui due dossier principali posti sul tavolo da Trump – l’immigrazione e il fentanyl – il suo team si sta coordinando con il governo statunitense su entrambe le questioni. Ma “se gli Stati Uniti impongono tariffe, il Messico è pronto, e lo è da mesi”.
La decisione di Trump fa di fatto saltare l’accordo commerciale che lui stesso aveva negoziato con i vicini durante il suo primo mandato, noto come USMCA. “L’accordo commerciale più equo, equilibrato e vantaggioso che abbiamo mai firmato “, aveva dichiarato allora lo stesso Trump. Che sperava, con quel trattato, che il deficit degli Stati Uniti con il Messico potesse diminuire. E invece è aumentato da 106 miliardi di dollari nel 2019 a 161 miliardi di dollari nel 2023.
In parte a causa del fatto che il Messico ha sostituito la Cina – a sua volta colpita da pesanti dazi – come provenienza di molte importazioni statunitensi. Ma anche il divario commerciale con il Canada è aumentato: da 31 miliardi di dollari nel 2019 a 72 miliardi di dollari nel 2023. Il deficit riflette in gran parte le importazioni americane di energia canadese: quasi il 60% del petrolio che gli Stati Uniti importano viene dal Canada.
Come si vede, il problema concreto è che gli Stati Uniti vivono ormai di importazioni, avendo le multinazionali di casa delocalizzato la produzione verso paesi a più basso costo del lavoro (Messico in prima linea, per il manifatturiero di base). E pretendono di pagare la differenza tra export e import con una moneta (il dollaro) il cui valore è dato ormai solo dal fatto di controllare il sistema dei pagamenti internazionali (Swift).
Gli annunci dati ieri – divieto di usare negli States delle «monete digitali» eventualmente emesse da altri paesi (l’euro, in primo luogo), diffusione aggressiva delle stablecoin (quasi tutte denominate in dollari ed emesse da società Usa), «dazi del 100%» sui paesi Brics+ se adotteranno una moneta di scambio reciproco diversa dal dollaro – definiscono un cambio d’epoca che durava dal secondo dopo guerra: la fine del commercio mondiale basato su regole concordate.
Ricordate l’Onu, l’Oms, le Corti Internazionali, i vertici del Wto (World trade organization), i G20 o i G8 e i G7, la stessa Davos, ecc.? Tutto finito, non c’è più niente da discutere e contrattare. Gli Stati Uniti emanano ordini in base ai propri esclusivi interessi e guai a chi non consente.
Bisogna però dire due cose, prima di concludere. Questo sbraitare scomposto e decretare compulsivo è palesemente privo di una base economica forte. Il “divieto di monete alternative”, per esempio è tecnicamente impossibile da far rispettare. Specie a colossi come Cina, Russia, India.
Non a caso il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha sorriso ironizzando davanti alle domande dei giornalisti su questo punto, spiegando che i BRICS non stanno discutendo della creazione di una moneta comune, ma “solo” della creazione di nuove piattaforme di investimento – diverse dallo Swift – che “permetteranno investimenti congiunti in Paesi terzi”.
Qualcosa di più devastante ancora per l’egemonia finanziaria Usa sul mondo…
In secondo luogo, ma forse più importante, notata ormai anche da manager capitalistici con esperienza internazionale, come Franco Bernabé, con queste mosse “la presidenza Usa piccona l’ordine mondiale costruito dagli Stati Uniti”, “una svolta ancora più importante di quella dell’89” (la caduta del Muro e lo scioglimento dell’Urss), “indebolendo proprio la posizione internazionale” di Washington.
Demolire quell’architettura, fatta di istituzioni, trattati, accordi, “enti terzi”, arbitraggi, consuetudini, lascia spazio solo alla guerra di tutti contro tutti. Anche all’interno dello storico “patto atlantico”, come fanno capire almeno due movimenti, al momento ancora solo accennati.
Il primo parte ancora da Trump: “Certo che imporrò dazi all’Europa, l’Europa ci ha trattati malissimo”. Il secondo è una reazione europea anomala, fino a qualche settimana fa impensabile anche come scherzo: il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot non ha escluso l’invio di truppe europee in Groenlandia “se i nostri interessi di sicurezza sono a rischio” per proteggerla dalle invadenti mire… degli Stati Uniti.
Ma nella guerra di tutti contro tutti perdono completamente senso tutte le sovrastrutture ideologiche, le “narrative diritto-umaniste” (i diritti umani sono una cosa seria, le “narrative” a doppio standard una presa in giro), “l’ordine basato sulle regole”, il “consenso della comunità” e la “legalità internazionale”, i “valori” e tutte le belle parole con cui sono stati giustificati massacri, guerre, lo stesso genocidio a Gaza.
“Democratici” e giornalisti che insistono nel recitare il vecchio copione sono ogni giorno più in difficoltà, spiazzati – e spazzati via – da uno tsunami reazionario e suprematista che sgorga direttamente dal centro dell’Impero e non sente neanche più il bisogno di mascherare i propri interessi sotto le maschere del “bon ton”. I “Rambini” e i “Furbini” possono a questo punto essere licenziati, sostituiti, riconvertiti…
Meglio ragionare da un punto di vista meno tossico, no?
Fonte: https://contropiano.org/