La corsa al vaccino contro il Covid-19 è stata vinta dai sistemi di innovazione dei Paesi più potenti al mondo. Con una rilevante eccezione: Cuba. In questo Paese di 11,3 milioni di abitanti, che ha lo stesso Pil della Campania ed è sotto embargo statunitense da sessant’anni, sono state sviluppate ben cinque diverse soluzioni vaccinali. Tre di queste (Abdala, Soberana 02 e il booster Soberana Plus) sono state usate per immunizzare oltre il 90% della popolazione cubana, e decine di milioni di persone in Messico, Nicaragua, Venezuela, Sahara occidentale, Siria, Iran e Vietnam. Qualche decina perfino a Torino.
Perché Cuba è riuscita a sviluppare e produrre in autonomia i suoi vaccini, mentre Paesi più ricchi e tecnologicamente avanzati, come quelli europei, li importano tuttora da aziende private statunitensi a prezzi sempre più alti? Osservare più da vicino l’esperienza cubana può essere utile per riflettere su alcuni limiti e contraddizioni del nostro modello di innovazione scientifica.
A differenza di quella europea, l’industria farmaceutica cubana è interamente pubblica. Le imprese non sono quotate in borsa e i brevetti sono di Stato. L’omogeneità nella proprietà, tuttavia, non implica quella nella governance: il sistema di innovazione nazionale si caratterizza per un elevato numero di aziende dotate di un’ampia autonomia gestionale e finanziaria. Tutte le imprese convergono in un’unica organizzazione imprenditoriale, Biocubafarma, che le raccorda con le priorità di sanità pubblica indicate dal governo e provvede alla gestione dei rapporti con l’estero. Il modello organizzativo prevalente è quello del “ciclo cerrado“: le aziende devono curare tutte le fasi di produzione, dallo sviluppo in laboratorio alla commercializzazione. E, accanto all’obiettivo prioritario di produrre farmaci per la popolazione cubana, hanno la missione di fare profitti, esportando all’estero i loro prodotti. Questo avviene nel modo più classico, attraverso la vendita di farmaci, ma anche sotto forma di asset intangibili, come nel caso del vaccino contro il tumore al polmone Cimavax – EGF, brevettato a Cuba ma sperimentato nella regione di New York.
Quando è arrivato il Covid-19, questo sistema ha reagito attraverso due strategie, ispirate dalla penuria e dal contesto istituzionale. La prima, che potremmo definire di repurposing drugs, è consistita nel riuso di soluzioni vaccinali già sperimentate con successo in passato; l’altra, che richiamando David Stark potremmo definire dissonanza organizzata, si è concretizzata nello stimolare vari laboratori a sviluppare in competizione tra loro più candidati vaccinali con biotecnologie diverse, tuttavia all’interno di una comune piattaforma di interscambio delle informazioni.
Un esempio rende meglio l’idea. L’Istituto Finlay ha sviluppato il vaccino Soberana 02, utilizzando come base di partenza la formulazione del vaccino contro Haemophilus, sviluppato alla fine degli anni Novanta per immunizzare la popolazione infantile. Il Centro di ingegneria genetica e biotecnologica (Cigb) ha sviluppato invece Abdala a partire dalla formulazione del vaccino contro l’epatite B, anch’esso successo della biotecnologia cubana di oltre trent’anni fa. Gli scienziati del Finlay sono partiti prima di quelli del Cigb con i trials del primo candidato, il Soberana 01, a sua volta costruito sulla base del vaccino contro un’altra infezione principalmente pediatrica, il meningococco. Tuttavia, si sono resi conto che c’era un errore nella formulazione e che questo poteva indebolire l’efficacia del vaccino. Questa informazione, condivisa grazie alla mediazione di Biocubafarma, risulterà fondamentale affinché il Cigb non faccia lo stesso errore. Sarebbe successo lo stesso in un sistema competitivo e di scienza chiusa, come quello prevalso nella corsa al vaccino occidentale?
Evidentemente no. L’industria vaccinale nei Paesi a capitalismo avanzato è ormai completamente privata. Come hanno ben ricostruito su queste pagine Stuart Blume e Maurizia Mezza, negli anni Novanta in Europa sono stati smantellati gli ultimi istituti pubblici che sviluppavano e producevano vaccini per i sistemi sanitari nazionali. Contestualmente, il Trips ha globalizzato una normativa restrittiva sulla tutela della proprietà intellettuale, concentrando la parte più remunerativa della catena del valore nella generazione di asset intangibili. Questo ha accelerato l’ingresso nella proprietà delle imprese farmaceutiche di fondi di investimento e venture capital. Da un lato, sono cresciuti gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte di privati. Dall’altro, però, è cresciuta la pressione del mercato finanziario sulla direzione e sulle priorità della ricerca sia di base sia applicata. Il risultato è che l’innovazione biofarmaceutica si occupa quasi esclusivamente delle patologie diffuse nei Paesi ricchi, e presenta una legge di Goodhart in azione sui brevetti: da indicatori di risultato per l’innovazione sono diventati l’oggetto e l’obiettivo dell’innovazione stessa.
Quando il Covid-19 è arrivato, i Paesi occidentali si sono trovati di fronte un sistema caratterizzato da enormi possibilità finanziarie e tecnologiche, ma completamente scollegato dalle finalità di salute pubblica e disabituato a stabilire rapporti collaborativi. Il rischio di incorrere in una gigantesca, pericolosissima, condizione di fallimento di mercato ha indotto gli Stati Uniti a intavolare una politica di innovazione (Operation Warp Speed) con l’erogazione di circa 18 miliardi di dollari per finanziare tutte le fasi di sviluppo dei vaccini contro il Covid-19. L’Unione europea ha seguito il suo partner geopolitico, con la strategia del de-risk, pre-acquistando le dosi di vaccini della cui efficacia, inizialmente, non aveva contezza. Ma perfino queste elargizioni straordinarie sarebbero state probabilmente insufficienti ad attivare il mercato se al contempo non si fosse data la garanzia che la normativa sull’utilizzo di biotecnologie proprietarie sarebbe rimasta in piedi, anche al costo di determinare rallentamenti e colli di bottiglia nella produzione delle dosi.
Non è certo un caso che nessuno dei vaccini occidentali arrivati al traguardo faccia utilizzo di componenti off-patent. Non solo quelli a mRna o adenovirali, anche quelli proteici, che pur utilizzando una biotecnologia vecchia di quaranta anni, sono composti da innovazioni incrementali. È il caso del vaccino a proteine ricombinanti Nuvaxovid, che usa come adiuvante la Matrix-m, una saponina rara, estratta da una corteccia di albero coltivato solo in Cile.
Una sostanza mai utilizzata per vaccinazioni di massa e sui bambini, dal costo esorbitante, esposta a possibili colli di bottiglia nelle forniture. Eppure, una soluzione di cui possiede il brevetto solo Novavax.
Una comparazione tra Nuvaxovid e Abdala, il vaccino a proteine ricombinanti cubano, non è stata ancora effettuata in sede scientifica.
Tuttavia, i dati di efficacia e di sicurezza che emergono dai trials di entrambe le formulazioni sono sovrapponibili e anche se i vaccini cubani sono ancora in corso di pre-qualificazione presso l’Oms, la loro effettività nello spegnere i contagi presenta dati indiscutibili nel mondo reale, pubblicati perfino da «The Lancet».
C’è inoltre da considerare che Abdala è stato immediatamente somministrabile ai bambini dai due anni in su, (sebbene il 98% dei bambini cubani sia stato vaccinato con Soberana 02), mentre Nuvaxovid è stato autorizzato solo un anno dopo nella fascia dai cinque anni in su. Per non parlare del costo d’acquisto e delle spese di produzione, con Abdala che è venduto ad un costo di cinque-sei euro a dose, mentre Nuvaxovid oltre i venti euro.
Viene allora da chiedersi se l’utilizzo di biotecnologie sperimentali per generare vaccini efficienti contro il Covid-19 sia stata una necessità sanitaria o economica. E, ampliando il senso della domanda, se i meccanismi di funzionamento dell’industria vaccinale capitalistica abbiano funzionato alla perfezione o se non ci sia qualcosa da imparare seguendo una via all’innovazione ispirata a principi umanistici e socialisti.
La pandemia ha dimostrato che quello biofarmaceutico è un settore nevralgico come quello energetico, sanitario ed educativo. È necessario che la scienza impegnata a risolvere le patologie più gravi del nostro tempo non sia frazionata, né mossa dal capitale finanziario sempre più “impaziente” che governa mente e corpo dell’industria farmaceutica globale.
La proposta di Massimo Florio, del Forum diversità e disuguaglianze, e di altre colleghe e colleghi di costituire un Cern europeo sul farmaco va in questa direzione, ed è molto dettagliata.
Pur essendo in discussione presso il Parlamento europeo, questa proposta non è ancora entrata con la forza che merita nel dibattito pubblico italiano, come in quello di gran parte dei Paesi occidentali.
Il Covid, la più grande pandemia dai tempi dell’influenza spagnola, sembra essere passata senza lasciare traccia sul nostro modello economico. Se non quella, tracciata a grassetto, che segnala il trasferimento di miliardi di euro dai bilanci pubblici ai dividendi delle grandi multinazionali del farmaco.