È iniziata una nuova guerra, una guerra che appare più vicina di tante altre. Questa volta, ben più di altre, il nemico è riconoscibile e condannarlo, difendersi con le armi, sembra una reazione istintiva. Una reazione che, però, finisce per dare più importanza allo scontro che al porre fine alle ostilità.
A pagare, come in ogni conflitto, sono le vittime, le persone innocenti.
È questa la logica della guerra, delle armi, della violenza, che la politica sceglie di perpetrare, dimenticandosi quello che la storia ci ha insegnato.
Per esorcizzare la guerra il tavolo della pace è l’unica possibilità.
Perché anche questa volta, si tratta di scegliere da che parte stare. Altre armi vogliono dire altre vittime.
La tregua è lontana
Alberto Negri, giornalista, ci guida nella comprensione di un conflitto sempre più complesso da inquadrare nelle sue caratteristiche e implicazioni.
Il video è stato registrato il 24 marzo. Prima messa online: venerdì 1 aprile 2022
Quali sono le radici della guerra iniziata il 24 febbraio scorso con l’invasione dell’Ucraina? Quali saranno le conseguenze del conflitto ucraino sul piano della politica internazionale?
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La trascrizione integrale dell’intervento di Alberto Negri per “Giù le armi”
Siamo entrati ormai nel secondo mese di guerra in Ucraina e ci facciamo diverse domande su come può in qualche modo finire questo conflitto che è iniziato il 24 febbraio scorso con l’invasione russa dell’Ucraina.
Ebbene, questo conflitto ha radici, come dire, che affondano nel tempo. E forse lo abbiamo scoperto improvvisamente quando è deflagrato negli ultimi due mesi, durante i quali gli americani hanno lungamente avvertito che la Russia stava per attaccare l’Ucraina.
Già questi due mesi mi sembrano siano stati due mesi perduti. Perché? Perché al di là degli avvertimenti americani sull’invasione in Ucraina, vere iniziative diplomatiche o di altro genere che potessero in qualche modo evitare questa guerra non ce ne sono state. È da notare, tra l’altro, che la crisi tra Kiev e Mosca entra in fase acuta qualche tempo dopo l’uscita di scena della cancelliera tedesca Angela Merkel, che era stata, se vogliamo, quella che teneva il filo diretto con Putin. Lei parla russo, lui parla tedesco e quindi in qualche modo si intendevano.
Purtroppo il conflitto appunto ha radici nel tempo, perché già nel 2014 c’era stata una guerra che aveva portato da parte russa all’occupazione militare del Donbass e poi all’annessione della Crimea. C’erano stati due accordi. Si erano siglati due accordi su una piattaforma, quella di Minsk nel 2014 e poi ribadita nel 2015, dove c’era un percorso diplomatico per evitare l’intervento delle armi. Questo percorso diplomatico disegnava una struttura federale per l’Ucraina, con l’autonomia regionale delle due repubbliche del Donbass, autoproclamate repubbliche del Donbass, e il loro reinserimento come autonome regioni dell’Ucraina in un parlamento federale che avrebbe dovuto dare una rappresentanza a circa quel 30% della popolazione ucraina russofona.
Ebbene, questo percorso non è in realtà mai iniziato davvero e si sono persi altri sei, sette anni senza purtroppo mai arrivare a qualcosa di concreto. Insomma, la diplomazia ha agito poco, ha agito male, non è stata sostenuta e gli Stati Uniti hanno in qualche modo anche sostituito in buona parte gli europei in Ucraina. Nel senso che, a parte la signora Merkel, qualche incursione dei presidenti francesi, tra cui Macron tra gli ultimi, in realtà gli americani avevano messo sotto le loro ali l’Ucraina e l’hanno anche sostenuta dal punto di vista in vista del riammodernamento militare. Lo si è visto molto chiaramente in questo primo mese di guerra, dove i russi hanno incontrato difficoltà che forse non sospettavano potessero essere così forti, con una resistenza notevole e un Ucraina capace di controbattere, nonostante l’inferiorità notevole, notevolissima di forze tra Mosca e Kiev, capace comunque di creare dei problemi alla Russia.
Al punto che nei primi giorni del secondo mese, si è capito che eravamo entrati in una fase di stallo dell’operazione militare o perlomeno, più che di stallo, di grande difficoltà per i russi di cogliere quei successi che forse pensavano potessero essere così facili all’inizio. Questa situazione in qualche modo ha alimentato e sta forse alimentando ancora alcuni tipi di ipotesi, soprattutto da parte americana, cioè la possibilità che da una fase difensiva, puramente difensiva, da parte degli ucraini si possa passare a un conflitto di logoramento. Una sorta di conflitto per procura dove impantanare, come in una sorta di Afghanistan europeo, i russi che non riescono come dire, a dilagare, come si pensava nei primi giorni.
Questa ipotesi, questa ipotesi di un logoramento delle truppe russe, che c’è evidentemente sul terreno, però, è assai pericolosa. È assai pericolosa perché? Perché in qualche modo potrebbe spingere Mosca non tanto a una resa o a un cessate il fuoco, ma in realtà a una escalation ancora maggiore del conflitto.
Non a caso si è parlato negli ultimi giorni sia di armi chimiche che biologiche che nucleari. È evidente che più il conflitto prosegue e più questa guerra diventa pericolosa, diventa pericolosa soprattutto perché innanzitutto moltiplica le vittime tra i civili, oltre che tra i militari della parti di una parte e dall’altra. E poi il rischio di allargamento diventa sempre maggiore, di allargamento del conflitto.
La discussione, per esempio, sulla no fly zone, che finora è stata spesso esclusa con forza sia dagli Stati Uniti che dalla NATO, è riaffiorata ancora negli ultimi giorni. Il pericolo, poi, è di pensare che questa guerra possa in qualche modo dare un colpo decisivo al regime putiniano in Russia. Devo ricordare che nessuno in passato è riuscito a fare veramente con le sanzioni e con quelli di questo tipo ad abbattere il regime iraniano, ad abbattere il regime di Assad in Siria… Cioè, gli episodi del passato ci suggeriscono che ci dovrebbe essere una certa prudenza da parte delle potenze internazionali nel pensare che sia possibile e a portata di mano un cambio di regime a Mosca.
E invece se si imbocca, come sembrerebbe da parte americana, in assenza di un accordo tra Kiev e Mosca sul cessate il fuoco che in questo momento Putin non vuole, il conflitto per logoramento potrebbe invece moltiplicare le possibilità di uno scontro allargato.
La pace, o il pacifismo, insomma, ha perduto nei meandri della diplomazia in questi anni molte occasioni per sistemare questo conflitto. Però se dobbiamo riflettere su quello che può essere il futuro immediato dopoguerra la strada ci sarebbe. Perché con un cessate il fuoco, se fosse possibile un cessate il fuoco, si potrebbe cominciare, si potrebbero cominciare a esaminare alcune opzioni per stabilizzare la situazione.
Lasciando da parte per un attimo la questione della neutralità, assai complicata peraltro in un Paese che è fuori dalla Nato ma sta ricevendo il supporto militare dell’Alleanza Atlantica, ci sono alcune soluzioni per arrivare a una conclusione diplomatica, a una soluzione politica. Bisogna trovare una via di uscita, come dire sia per Zelenski che per Putin. Anche se Putin probabilmente non la meriterebbe, ma la merita la causa della pace.
La soluzione potrebbe essere quella di avviare un percorso sulla falsariga di quello di Minsk, ma in maniera magari diversa, conducendo per esempio dei referendum nell’area regionale del Donbass di Donetsk e Lugansk per chiedere alla popolazione qual è la soluzione politica che preferiscono. Indire un altro referendum sotto gli osservatori internazionali in Crimea. Già ce n’era stato uno ma sotto la Russia quando annessa nel 2014.
Quindi procedere secondo uno schema che forse è quello che garantisce meglio una stabilizzazione. Quello di incoraggiare e attuare l’autodeterminazione dei popoli. Secondo la Carta delle Nazioni Unite, ma secondo anche quelli che vengono propagandati come gli ideali occidentali.
Poi bisogna vedere naturalmente se la parte russa accetta questo, ma anche se accetta la parte ucraina. Perché gli ucraini non è che si sono seduti al tavolo di Minsk intenzionati ad arrivare a un accordo, anche perché ponevano come precondizione il ritiro della Russia da Lugansk e dalla Crimea. Ora queste condizioni non si sono rese possibili negli anni precedenti e forse non si renderanno possibili anche nell’immediato futuro. Quindi bisogna cercare di far cadere da una parte e dall’altra le precondizioni e capire dove si può arrivare.
Dovremo anche vedere fino a dove arriva l’offensiva, l’offensiva russa che abbiamo descritto in fase di stallo, ma che è vicina alla caduta di alcune città importanti, soprattutto nella fascia del Mar Nero, che è quella che strategicamente interessa di più Mosca in quanto costituirebbe la continuità territoriale tra la Crimea, il Mar d’Azov e il Mar Nero.
Ecco perché è difficile immaginare solo una guerra di logoramento. I russi cercheranno sicuramente di aumentare il proprio dispiegamento militare, forse di usare armi ancora più letali per arrivare a un obiettivo che non è più certo quello del cambio di regime a Kiev, ma quello di portare a casa probabilmente un successo con un orizzonte temporale. Un orizzonte temporale che potremmo immaginare potrebbe essere quello del 9 maggio, quando ogni anno a Mosca si tiene la sfilata famosa di commemorazione della fine della Seconda guerra mondiale. Per quella data, probabilmente, Putin vorrebbe sventolare un trofeo di fronte all’opinione pubblica russa.
Per quanto riguarda gli occidentali, gli europei e la Nato e gli Stati Uniti, c’è da rilevare in sostanza questo: in realtà la politica dell’Alleanza Atlantica in questi anni, anche questo caso lo ha dimostrato, si è sovrapposta a quella dell’Unione Europea, Unione europea che come sapete manca di una politica estera e di difesa comuni, che sta in qualche modo cercando di darsi frettolosamente di fronte a un conflitto quello che non si è dato per trent’anni, ma che poi di fatto ha sempre seguito l’agenda dell’Alleanza Atlantica.
Questo conflitto poi, per allargare gli orizzonti, è un conflitto che sta dando luogo a una sorta di deriva dei continenti. Cioè, se noi lo guardiamo dal punto di vista europeo, lo dobbiamo guardare in una certa maniera, ma se poi alziamo lo sguardo e vediamo quello che accade intorno a noi, beh, allora la riflessione sono parecchie.
Vediamo grandi paesi come la Cina, come l’India, che non hanno affatto condannato l’operazione militare di Putin. C’è un’invasione piuttosto barbarica, anzi direi barbarica del tutto, dell’Ucraina. Ci sono alleati stretti degli Stati Uniti che hanno condannato l’operazione militare ma non hanno imposto sanzioni a Mosca. Parlo di Israele che è uno stretto alleato di Washington da sempre e della Turchia, che è un membro della Nato dagli anni 50, cioè un Paese importante, incardinato sul fianco sudorientale dell’Alleanza Atlantica. Parlo anche di altri paesi come gli Stati arabi. Gli Stati arabi addirittura hanno fatto la pace in questo periodo con uno dei nemici degli Stati Uniti e degli occidentali, cioè Bashar Assad, ricevuto dagli Emirati Arabi Uniti che un tempo avevano finanziato la guerriglia, il terrorismo dei jihadisti e dell’Isis sul territorio siriano.
Paesi come gli Emirati, appunto, ma anche l’Arabia Saudita, hanno mandato chiari segnali di insofferenza nei loro confronti nei confronti degli Stati Uniti. Generati da che cosa? Beh, dal record disastroso negli ultimi vent’anni della politica americana e occidentale in una vasta area del mondo. Basti pensare al successo e l’insuccesso stratosferico dell’Afghanistan, con la ritirata disastrosa, ai bombardamenti in Iraq che hanno poi inghiottito nel marasma per vent’anni un intero Paese, ai bombardamenti in Siria che hanno gettato la Siria nell’anarchia e ancora oggi è un Paese senza alcuna stabilità, alla guerra di Siria. Questo solo per citare i maggiori. Ecco perché oggi noi guardiamo a una sorta di deriva dei continenti, che ha delle conseguenze e probabilmente avrà anche delle conseguenze economiche, perché penso che assisteremo a una sorta di deglobalizzazione.
Da una parte avremo un sistema euro-atlantico. Gli Stati Uniti leader della situazione e un’Europa ancora penso ancora più indebolita. Forse, a parte la Germania che ha deciso di farsi la sua di difesa investendo 100 miliardi di euro in spese militari. Questo tre giorni dopo la guerra, dopo l’inizio della guerra. E un fronte, un’area, direi asiatica, dove la Cina è sicuramente il paese più forte economicamente, finanziariamente, con la Russia e un’ampia parte del mondo dove dal Centro Asia fino al Medio Oriente e fino all’Africa vedremo un mondo che cercherà in qualche modo, se non di sganciarsi dagli Stati Uniti, di avere un atteggiamento molto critico rispetto all’America e all’Europa, che non hanno saputo garantire stabilità nelle loro aree e che oggi si sono trovati la guerra in casa.
CHE COSA VUOL DIRE ESSERE PACIFISTI
Donatella Di Cesare, filosofa e scrittrice, stimola una riflessione su cosa significa essere pacifisti e perché la pace oggi è l’unica possibilità.
Prima messa online: mercoledì 30 marzo 2022
La prima vittima della guerra non è – come spesso si dice – la verità, ma il pensiero: in una specie di schema binario, ci viene spesso chiesto di essere da una parte del fronte o dall’altra. In questa concezione i pacifisti, che non si schierano con nessuna delle parti in causa, sono tacciati di essere ingenui: essere oggi pacifisti vuol dire invece evitare le semplificazioni, interrogarsi sulle cause per cercare una soluzione, smontare la propaganda bellica, che vede spesso la negoziazione come una resa.
La trascrizione integrale dell’intervento di Donatella Di Cesare per “Giù le armi”
C’è una metafora molto diffusa a proposito della guerra che è la metafora della nebbia.
La guerra è anzitutto la nebbia, cioè il contesto bellico: il contesto di chi non distingue più e quindi asseconda la confusione. Potremmo dire che è una sorta di pigrizia mentale, di chi non opera quelle distinzioni che invece sono importanti per il pensiero, ma anche per la vita. Si dice in generale che la prima vittima della guerra sarebbe la verità, ma in realtà – a ben guardare – la prima vittima della guerra è, invece, il pensiero. Dov’è la pigrizia mentale? La pigrizia mentale è di coloro che per esempio non distinguono tra Putin e Hitler, che riconducono il contesto storico per esempio del 1938 a quello, molto diverso, del 2022. In questo senso certamente la nebbia è anche un’immagine della cecità. La guerra è cecità e potremmo già dire che la pace è una lotta contro la cecità. Che cosa vuol dire cecità? Cecità vuol dire intorpidimento, cecità vuol dire rigidità, irrigidimento. L’irrigidimento che noi viviamo anche in questi giorni, la militarizzazione dei fronti e lo schema binario di chi impone per forza di essere da una parte del fronte, di chi impone lo schieramento. O sei dalla parte degli ucraini o sei dalla parte di Putin.
Tanto più rigido è questo schema binario e tanto è più vergognoso il modo in cui vengono presi di mira i pacifisti. I pacifisti che sono quelli che non si schierano né da una parte né dall’altra e per questo devono sopportare tanti insulti. L’insulto per esempio di essere vili e di essere cinici, di essere ingenui. Al contrario essere oggi pacifisti vuol dire avere molto coraggio, per essere pacifisti bisogna avere coraggio e bisogna anche avere buoni amici, buoni compagni con cui dialogare con cui appunto dialogare, anche confrontarsi. Occorre disdire l’ordine bellico della militarizzazione e in questo senso il pacifismo non è per nulla la equidistanza, ma è quella distanza che è la distanza del pensiero che permette di interrompere la violenza, che permette di riflettere. E soprattutto permette di evitare quello che oggi è pericolosissimo cioè le semplificazioni, le scorciatoie. La via più difficile è sempre quella della complessità: interrogarsi sulle cause perché solo chi si interroga sulle cause può anche guardare alla soluzione. E allora certo, è vero, i pacifisti sono complessisti, come appunto qualcuno ha rilanciato in questi giorni, proprio perché non amano la semplificazione.
Oggi noi sappiamo che un altro grande pericolo è quello della mistificazione, la mistificazione è ormai da anni una figura politica molto molto pericolosa, molto rischiosa. Noi a questo proposito, va detto, va sottolineato, quando noi per esempio facciamo l’uso di simboli o di colori all’interno dello spazio pubblico, ebbene questo ha un valore simbolico, ha un valore politico. Allora per esempio chi innalza un drappo nazionale, quello dell’Ucraina, io lo rispetto, va benissimo, ma non è un pacifista. Chi in una piazza applaude al leader di una nazione in armi che chiede più armi, ebbene, non è un pacifista: questa sarebbe una grave mistificazione. Va bene naturalmente difendere un popolo aggredito, ma il problema come sappiamo, che impone la riflessione, che impone il pensiero, è se si difende un popolo aggredito con più armi, con più violenza e non invece con la pace subito. La mistificazione, fatemelo dire, è quella di chi per esempio brandisce il nome di Gino Strada, come è avvenuto in questi giorni, avendo una posizione esattamente opposta a quella del pacifismo.
E, importante, non esistono pacifismi diversi: non esiste come si vuol far credere un pacifismo integralista fondamentalista rispetto a un supposto pacifismo, come dire, più arguto, più oculato, più opportuno. Chi sostiene l’opposizione armata, chi sostiene l’invio di armi, non è un pacifista. O armi o pace. Un pacifismo in armi, un pacifismo belligerante è un ossimoro, è una contraddizione in termini e quindi non dobbiamo lasciarci fuorviare da questo e, lo sappiamo, purtroppo anche da quello che è accaduto che è accaduto in Europa anche nel Novecento. Perché coloro che si sono fatti fuorviare, appunto, i pacifisti che per esempio già nella prima guerra mondiale sono diventati interventisti hanno collaborato alla distruzione. Dunque attenzione, fuori da quelle circostanze casuali che ci spingono a stare dalla parte di chi commette violenza o di chi la subisce.
Oggi il compito, il primo compito, dei pacifisti è decostruire, smontare la propaganda bellica. Questa propaganda che ogni giorno diventa sempre più violenta e totalizzante. Propaganda, la parola propaganda è importante, non vuol dire soltanto diffondere le notizie, propaganda vuol dire anche consolidare, perché la propaganda consolida i fronti, consolida gli schieramenti e naturalmente contribuisce anche alla retorica, all’irrigidimento delle parole. Retorica è il modo in cui oggi viene usata la parola “resa”. La parola “resa”, arrendersi, fa parte del linguaggio militaristico, fa parte del linguaggio bellico, e viene usata al posto della delle trattative, della negoziazione. Chi è pacifista crede nella negoziazione e soprattutto crede nella parola “oltre i fronti” e quindi nella possibilità di oltrepassare la violenza che è sempre l’immediatezza rozza. Questo appunto vuol dire guardare al negoziato, guardare alle trattative per non perdere ancora più vite umane e soprattutto per evitare il sacrificio inutile.
Empatia? Io in questi giorni ho visto come tutti immagini che ci angosciano, immagini che ci addolorano, immagini – per esempio – di anziani inermi rimasti soli che nessuno può aiutare sotto le bombe… Chi non prova angoscia? Chi non prova dolore? Però attenzione, perché l’empatia e basta è pericolosa, perché è necessario sempre riflettere, perché il passo verso l’identificazione automatica è un passo breve. Io per esempio non mi identifico con quelli che vengono proclamati eroi, con gli ucraini in divisa e con i russi in divisa che inneggiando naturalmente a parole di violenza con canti nazionalistici combattono per la loro terra. E vorrei dire: mai ammirare la violenza. Mai odiare i nemici.
Ho letto in questi giorni, in cui si parla ormai di una sorta di nuovo scontro di civiltà che gli ucraini stanno combattendo per noi, stanno combattendo per i nostri valori, e mi sono chiesta quali valori? Ci viene detto la libertà, la democrazia, ma poi anche la patria, l’identità nazionale, la terra. E ho l’impressione che proprio questi ultimi siano i valori fondanti. E mi chiedo: sono passati in Europa tanti anni e tanti decenni invano? Forse non aspiravano a una Europa dei popoli oltre gli Stati nazionali? Non un’Europa delle patrie, un’Europa delle nazioni, ma un’Europa della convivenza, della coabitazione con l’altro? La nazione è un criterio etnico e discriminatorio ed è sempre più pericoloso. Lo vediamo da una parte, dalla parte dei russi, dalla parte degli ucraini ed è sempre più pericoloso perché le popolazioni europee sono sempre più miste nel mondo globalizzato. Gli Stati usano la nazione per rinsaldare i propri confini. La nazione usa lo Stato per la propria fantomatica integrità, purezza etnica. Entrambi, stato e nazione, sono pericolosi i miti del passato, per non parlare della patria.
La patria per me è una parola grottesca, è la terra dei padri, è il mito della autoctonia: cioè pensare che io sono nato in questa terra, appartengo a questa terra e la terra mi appartiene, e dunque ho il diritto sovrano di respingere e di rifiutare fino all’eliminazione dell’altro. Questo è un mito pericolosissimo. In fondo è anche un mito pericoloso quello della sovranità: l’idea cioè che noi saremmo sovrani, che c’è un soggetto sovrano. Vale per l’individuo, vale per un popolo.
Sappiamo già, anche grazie alla pandemia, che non c’è prima la mia libertà, ma la mia libertà si coniuga sempre con la libertà dell’altro. La vita umana è più importante della patria, la vita di bambini, di donne, di anziani… e basta con il sacrificio per i valori. Addirittura, oggi nel ventunesimo secolo.
Dunque disertiamo i nazionalismi, questo vuol dire anche disertare, e svincoliamoci da questi valori distruttivi: mettiamo in discussione questo ordine bellico. La pace non viene da sé, la violenza è immediata, la pace non viene da sé. La pace richiede un grande sforzo ed è lo sforzo di non odiare il nemico e questo sforzo è il contrassegno dei pacifisti. Certo non tutti riescono perché è più facile lasciarsi andare alla violenza, all’omicidio, all’uccisione. La guerra è proprio questo: l’altro è trasformato in cosa, l’altro è trasformato in oggetto. C’è questa reificazione dell’altro per cui l’altro non è soltanto il nemico ma, appunto, un oggetto che posso eliminare, un ostacolo sulla mia strada. La guerra per questo motivo schiavizza tutti. La guerra è la realtà nella sua evidenza, è la dura realtà nella sua evidenza, è la durezza della realtà. Però la realtà muta, la realtà senza parola e la realtà brutale appunto dei valori immediati.
La pace interrompe la violenza, la pace è interruzione. Chi vuole inviare armi accetta di fare ipocritamente la guerra con il corpo altrui e perciò accetta la guerra per procura. Noi già negli ultimi anni abbiamo visto tante guerre per procura e anche tante guerre cosiddette giuste. Non esiste la guerra giusta, la guerra giusta è una contraddizione in termini, la guerra giusta è un ossimoro. Non c’è giustizia dove c’è la guerra. Quali sarebbero i criteri di una guerra giusta? Finché noi, come accade in questi giorni, accettiamo questo rischiamo di seguire questo valzer apocalittico che stanno già danzando i mercanti di morte. Un valzer apocalittico perché appunto, lo sappiamo, ormai si parla come se fosse un’ovvietà di nucleare.
Penso che in questi giorni la violenza di questa propaganda militarista la dice lunga sullo scopo, sui fini ultimi. Perché si vuole preparare la popolazione, soprattutto si vogliono preparare quelli che saranno colpiti i più deboli, i più poveri, i più inermi, alle conseguenze devastanti della guerra. Tutti quelli che hanno già pagato, tutti quelli che hanno pagato anche con la pandemia, dovranno di nuovo pagare. Non si parla più di investire nella ricerca, nella cultura, nell’educazione. Avevamo sperato in questo, in un nuovo capitolo della storia dell’Europa e invece al contrario si parla di armi, di tante specie diverse di armi, e soprattutto si parla di riarmo dei singoli paesi europei. E questa sarebbe l’Europa compatta che alcuni elogiano? Questa sarebbe la compattezza dell’Europa? Quella di un’Europa in armi? Non vogliamo questo.
La pace non è un’ingenuità, la pace non è la sospensione morale della politica in armi, non è tanto meno la condotta di anime belle e sprovvedute. La pace è oggi l’unica salvezza nel mondo globalizzato: noi non dobbiamo mai dimenticare che questa guerra è una guerra tra due Stati nazionali e molto nazionalistici all’interno dell’Europa, ma nello scenario della globalizzazione. E allora dobbiamo pensare che la pace non è di là da venire. La pace è l’aldilà della guerra. La pace è la prospettiva di chi guarda, di chi solleva lo sguardo e guarda all’alternativa, alla possibilità oltre l’ordine bellico degli schieramenti. La pace non può più essere oggi un concetto negativo, non si prepara la pace attraverso la guerra, la pace non viene dopo la guerra, la pace viene prima della guerra e la pace è proprio questo, cioè il riconoscimento che l’altro viene prima di me e che io sono io grazie all’altro. Questo vale per tutti noi e vale anche tanto più per i popoli. Noi abbiamo ormai sullo sfondo lo scenario di una Terza Guerra Mondiale, lo scenario del nucleare, uno scenario come dicevo apocalittico: non si può misurare il rischio, non si può misurare il fattore della imprevedibilità. L’operazione di appropriarsi del nemico, di appropriarsi dell’avversario, rischia di capovolgersi anche nell’auto-annientamento di sé. Questo è lo scenario di oggi, del nucleare. In breve, in una Terza Guerra Mondiale nessuno si salverà. Questo lo sappiamo. E allora non seguiamo la danza macabra dei mercanti di morte. Altrimenti non avremmo la pace giusta in Europa ma avremmo, come dice Kant, la pace perpetua dei cimiteri e della morte. Grazie mille.