Il giornalista statunitense Nathan Thrall, ex responsabile del Programma arabo-israeliano nell’ambito dell’International Crisis Group, ha vinto nel maggio 2024 il premio Pulitzer per la categoria “Nonfiction” con il libro Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme, un’implacabile testimonianza del sistema di apartheid in vigore in Cisgiordania.
L’autore ha indagato sullo spaventoso incidente tra uno scuolabus e un tir in cui, nel 2012, morirono numerosi bambini tra i 4 e i 6 anni e i loro insegnanti di una scuola di Gerusalemme Est, che andavano in gita in Cisgiordania. La tragedia si consumò sulla strada di Jaba, controllata da Israele, nota come la “strada della morte”. I soccorsi palestinesi furono rallentati dai checkpoint miliari. Anche le ambulanze israeliane tardarono ad arrivare. A intervenire nel tentativo disperato di salvare i bambini furono degli automobilisti presenti sul posto. “Se non si fosse trattato di un incidente, ma di due bambini palestinesi che lanciavano pietre sulla strada, i militari sarebbero accorsi in pochi minuti”, afferma Nathan Thrall, ebreo americano che vive a Gerusalemme dal 2011. Negli Stati Uniti il suo libro è uscito prima del 7 ottobre 2023. Mediapart lo ha intervistato.
Come è nata questa inchiesta?
Avevo sentito la notizia dell’incidente alla radio mentre andavo a Hebron, nella Cisgiordania occupata, insieme ad un collega palestinese. Era il 16 febbraio 2012. Da allora ho pensato tanto a tutti quei bambini, ai loro genitori e a quanto la loro vita è diversa dalla mia solo perché vivono dall’altra parte del muro costruito da Israele. Ma ho deciso di indagare sull’incidente tempo dopo, perché non sopportavo più il disinteresse del mondo per la questione israelo-palestinese, a cui si presta attenzione solo in tempo di guerra. Ho voluto quindi occuparmi dei periodi, diciamo più calmi, tra una guerra e l’altra, per attirare l’attenzione sul sistema di dominazione che gli ebrei israeliani impongono ai palestinesi e che, a mio parere, è alla base del ripetersi della violenza. Ho deciso di scrivere un’opera di non fiction in cui tutti potessero identificarsi e percepire l’ingiustizia storica di cui i palestinesi sono vittime. Un sistema istituzionalizzato di dominazione, controllo e segregazione imposto da Israele, che si concretizza in un muro, in posti di blocco militari, strade separate, carte d’identità di diverso colore, leggi, politiche e pratiche discriminatorie.
Nel suo libro usa solo una volta la parola apartheid. Perché?
La uso citando il viceministro della Difesa, Ephraim Sneh, che, nel dicembre 2006, in uno scambio con l’ambasciatore degli Stati Uniti a Tel Aviv, parlò di “strade dell’apartheid”. Il mio è un libro sull’apartheid. Ma non volevo suggerire la parola al lettore. Volevo che fosse il lettore, attraverso il racconto dei fatti, a pervenire da solo alla conclusione che in Cisgiordania esiste un sistema di apartheid. Per capirlo fino in fondo bisogna osservare la vita quotidiana dei palestinesi. Per anni ho visto venire in Israele decine di delegazioni. Ogni volta, su un viaggio di una settimana, passavano massimo mezza giornata in Cisgiordania. E ogni volta era il momento più destabilizzante del viaggio. Guardavano l’apartheid in faccia, con i loro occhi, senza essere capaci di pronunciare la parola. L’uso di questo termine ormai è indiscutibile. Le principali organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch, hanno pubblicato rapporti dettagliati sull’apartheid di Israele. Anche alcuni funzionari israeliani come Tamir Pardo, ex capo del Mossad, e Michael Ben-Yair, ex procuratore generale di Israele, parlano di apartheid.
Nel prologo del suo libro afferma che non vivrà abbastanza per vedere la fine della segregazione, ma che “forse” saranno le sue figlie a vederla. Perché è così pessimista?
Il solo modo per mettere fine alla segregazione è mettere fine innanzi tutto all’impunità di cui gode Israele. Se gli Stati Uniti iniziassero a rispettare le proprie stesse leggi e smettessero di fornire armi all’esercito israeliano che viola regolarmente i diritti umani, se l’Unione Europea iniziasse a fare lo stesso e facesse pressioni su Israele, subordinando l’accordo di associazione al rispetto dei diritti umani, come è scritto nell’articolo 2, Israele si ritroverebbe isolato nel mondo e si renderebbe conto che ci guadagnerebbe di più ad accordare la libertà ai palestinesi. Ma temo che bisognerà aspettare ancora decenni perché questo accada.
Non c’è proprio nessuna speranza, nemmeno sul piano di diritto internazionale?
È vero che negli ultimi dodici mesi l’opinione pubblica mondiale è cambiata. È in corso un vero processo educativo. La Corte di giustizia internazionale ha stabilito che l’occupazione è illegale e che Israele viola la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Il procuratore della Corte penale ha richiesto mandati di arresto contro il primo ministro israeliano e il suo ministro della Difesa. Il Regno Unito ha sospeso decine di licenze di esportazione di armi verso Israele. Gli Stati Uniti hanno imposto per la prima volta sanzioni ai coloni. Anche i Paesi europei stanno valutando di cambiare la loro politica nei confronti di Israele, riconoscendo lo Stato palestinese e sospendendo l’esportazione di armi. Queste iniziative avrebbero bisogno di essere potenziate e accelerate per pervenire ad un reale cambiamento.
Come spiega l’impunità di cui gode Israele?
Le ragioni sono tante, ma, a mio avviso, a parte l’enorme senso di colpa che prova l’Europa per l’Olocausto, una delle ragioni principali di questa impunità risiede in una comprensione ancora troppo superficiale della storia. La narrazione israeliana in Occidente continua a essere dominante in Europa. Bisogna risalire alla fondazione dello Stato di Israele, nel 1948. Il sionismo è un progetto coloniale, non nel senso di una potenza imperiale che invia un gruppo di coloni per estrarre le risorse naturali di una terra lontana, ma nel senso di un gruppo di coloni che arriva in una terra che appartiene già ad un altro popolo con l’intenzione di farla propria. I primi coloni sionisti arrivarono in Palestina nel 1882. All’epoca, la popolazione ebraica in Palestina era inferiore al 5%. Era impossibile creare uno Stato ebraico in un territorio prevalentemente non ebraico, contro la volontà della maggioranza della popolazione, senza mettere in atto una pulizia etnica, ed è quello che è successo. Lo Stato di Israele è stato creato da un atto di pulizia etnica, che da un giorno all’altro ha trasformato la minoranza ebraica in maggioranza.
Per la giornalista palestinese Lubna Masarwa, come per molte altri osservatori, la guerra a Gaza ha messo in evidenza l’esistenza di un “razzismo puro”: “Per l’Occidente una vita bianca ha più valore di una vita araba”. È d’accordo?
Certo. Basta guardare il modo diverso in cui sono trattate le vittime ucraine e le vittime palestinesi, che vengono totalmente disumanizzate. La disumanizzazione, a cui oggi assistiamo su vasta scala, è una delle tematiche principali del mio libro. Alcuni israeliani avevano festeggiato per la morte dei bambini palestinesi nel rogo dello scuolabus. Ma era un incidente stradale, non una guerra. Lo Stato di Israele non era stato attaccato. Come si può mettere in dubbio l’innocenza di quei bambini? Negli ultimi dodici mesi, questa disumanizzazione è stata normalizzata e ha assunto proporzioni colossali.
Il presidente israeliano, Isaac Herzog, che viene dal centro-sinistra, ha invece suggerito che non ci sono innocenti a Gaza: “È un’intera nazione ad essere responsabile”, ha detto.
Vivo a Gerusalemme dal 2011, una delle città più segregate al mondo. Palestinesi e israeliani non usano le stesse linee di autobus. Il principale asse stradale, nord-sud, è una via stretta e tortuosa per i palestinesi, piena di curve. Per gli ebrei delle colonie e di Gerusalemme Ovest invece è stata costruita un’autostrada a più corsie. I palestinesi sono stati segregati dall’altra parte del muro. Mancano migliaia di aule e parchi giochi per i bambini palestinesi. E questi sono solo alcuni esempi.
Traduzione di Luana De Micco
Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it